mercoledì 26 marzo 2014

Meditare per medicare.

Secondo alcuni meditare e medicare derivano dalla stessa radice etimologicica med.

Per esempio, Giacomo Leopardi ne Lo Zibaldone scriveva: "Chi non vede che l’esercitare e il meditare una cosa è una continuazione del semplice averne o pigliarne cura".

Ma ancora prima Michel De Montaigne sosteneva: "Meditare è un'azione potente e piena. Io preferisco formare la mia anima piuttosto che arredarla."

giovedì 20 marzo 2014

La respirazione secondo gli Yogasutra di Patanjali

"Da notare l'ordine con cui sono state esposte da Patanjali le varie fasi della respirazione, dove al primo posto troviamo l'espirazione, descritta come l'esteriorizzazione del respiro. Essa va considerata come momento di eliminazione delle tensioni, di rilassamento e purificazione interna e va eseguita come primo atto di un qualsiasi esercizio yogico, così come costituisce il primo atto respiratorio della nostra vita, il primo vagito, ma anche l'ultimo, il rantolo finale. [...] All'espirazione segue l'inspirazione descritta come l'interiorizzazione del respiro, alla quale Patanjali accorda la fase di ritenzione, descritta come la stabilizzazione del respiro. Fase respiratoria, quest'ultima, che è anche detta kumbhaka, perché trattiene il respiro come l'acqua è ferma in una brocca. Questa ritenzione, se la si vuole eseguire a piacere e in qualunque frangente, è detta di subitanea stabilizzazione.
La respirazione guidata, facendo parte delle tecniche di pranayama, si costituisce con l'iniziale espiro, seguito dall'inspiro e dalla ritenzione, molto diversamente dalla respirazione spontanea, che, essendo simile a quella del sonno, consta di inspiro, espiro ed eventuale sospensione del respiro e che la stabilizza. [...] Con la pratica, poi, vedremo che il respiro diviene lungo e sottile."

(Commento al sutra II, 50 degli Yogasutra di Patanjali)

Giuseppe Tamanti ~ Lo yoga e il samkhya

mercoledì 19 marzo 2014

Il rancore ci ucciderà tutti

«Il rancore ci ucciderà tutti»
«Ma loro moriranno per primi. E allora brindiamo al rancore!»


Da Get the Gringo, ovvero dell'infinita saggezza sprigionata dai B-Movie.

martedì 11 marzo 2014

SettanTA (Taranto mi spezzi il cuore)

"Che purtroppo noi stiamo morendo e gli altri stanno mangiando. Chi ci piangerà."

"Trentacinque anni che abito qua. Ci hanno messo provvisori e stiamo morendo qua."

"Siamo sempre stati gli ultimi della classe, certo... A Taranto non pensa nessuno. Questo volevo dire al governo: venissero loro a vivere qua."


SettanTA, di Pippo Mezzapesa (2012)






Le case-parcheggio di Taranto furono costruite in fretta e furia nel 1980 come alloggio temporaneo per dare un tetto alle famiglie che dovevano essere evacuate dal centro storico che intanto cadeva a pezzi, in attesa di edificare delle più decorose case popolari. A tutt'oggi sono abitate, ospitando (ma sarebbe più giusto dire stipando) molte più persone di quante dovrebbero.

Gli standard costruttivi sono minimi, di poco superiori a quelli delle favelas: pavimenti di plastica e catrame, pareti di amianto, pozzi neri appena sotto gli appartamenti che esalano odori insopportabili e spesso si infiltrano nei tubi dell'acqua per le abitazioni.

Le case parcheggio sono un ghetto nel ghetto del quartiere Tamburi, quello tristemente famoso per essere ai piedi dell'ILVA, oltre che per essere il regno di topi grandi quanto bambini e della malavita locale.

Pippo Mezzapesa le aveva già immortalate nel suo lungometraggio Il paese delle spose infelici, per poi tornarci con questo corto SettanTA, con cui ha vinto il Nastro d'Argento.

Sporche, disastrate e dannate, eppure poetiche, talmente degradate da sembrare la riproduzione di un set cinematografico, e invece talmente vere da lasciarti senza fiato e da farti sentire un forte pugno nello stomaco ogni volta che ci passi davanti, non ci si può abituare mai a tutta questa miseria, e neppure fare finta che non esista. Non è vero, invece si può.

Lacrime di yoga

Può capitare durante una lezione di yoga (solitamente durante la fase finale in cui si pone molta attenzione al respiro o durante il rilassamento profondo in savasana) di essere presi da un'improvvisa e irrefrenabile voglia di piangere o di ridere.

In particolare il desiderio di pianto spesso crea un forte imbarazzo in chi lo prova, soprattutto se si tratta di un principiante, perché non sa come gestirlo e perché si sente colto di sorpresa e messo a nudo nelle sue emozioni che sicuramente preferiva non palesare, mente loro - le stronze - spingono al massimo per uscire fuori.

La prima cosa da sapere è che si tratta di un fenomeno assolutamente naturale e che capita molto spesso (ve lo dice una che lo ha sperimentato tantissimo!). Di solito colpisce più facilmente gli allievi principianti e le persone molto sensibili, ma può capitare a chiunque, anche a insegnanti e ad allievi esperti, magari in seguito ad una sessione molto intensa o sentita.

Quando con l'esperienza si impara a riconoscere e a gestire questa sensazione la si saluta come una benefica liberazione.

Non c'è da vergognarsene, da imbarazzarsi, da colpevolizzarsi. La cosa migliore da fare è assecondare l'impulso, far scorrere le lacrime (o le risate) e liberare quelle emozioni rimaste intrappolate che finalmente, grazie allo yoga, hanno trovato la loro strada per fluire. Un espediente può essere quello di "approfittare" di savasana e di coprirsi gli occhi con un asciugamano.

A questo proposito riporto un interessante post di Facebook di Luca Renzini http://www.ilrespirodanzante.com/
"Domanda: Chi sono gli allievi che possono piangere in una delle tue lezioni?
Risposta: Per me quelli più belli...
Domanda: In che senso?
Risposta: Se parliamo di vasi si rompe più facilmente il ming o la gomma? E bada bene per pianto o sorriso che sia intendo emozioni che emergono, intelliggibili anche se non palesemente espresse
."