venerdì 20 gennaio 2017

PArTorIRE

"Quasi quasi io il dolore al ginocchio te lo lascerei, così non ti dimentichi della cicatrice".

Come spesso accade, il dolore di una parte del corpo è sintomatico di un problema di un'altra. Di una parte del corpo di cui ci siamo dimenticati.

E così mentre l'osteopata mi chiede se ho mai subito interventi io mi dimentico di dire che ho fatto il parto cesareo, che sì, è stato un intervento a tutti gli effetti.

Inizia a trattarmi il ginocchio, e dopo un po'    inizia a mettermi le mani sulla cicatrice del parto. Iniziò a piangere. Non perché mi faccia davvero male, ma perché quello è il mio punto più vulnerabile. L'unica parte del mio corpo che non tocco mai, che non guardo, che nascondo sempre.

E improvvisamente capisco che quella è la sede dei miei dolori più profondi, della mia rabbia, della rimozione di un parto bruttissimo, che non ho mai accettato e che mia ha lasciato pessimi strascichi anche relazionali. 
Come abbia fatto una persona meravigliosa come mia figlia a nascere da un parto così brutto e traumatico è una cosa che non mi spiegherò mai.
Roba vecchia, non ci pensavo più da almeno 10 anni. Pensavo di averla superata, che fosse acqua passata. 

E invece no. Eccolo là, l'osteopata che mi dice: "il tuo respiro è bloccato, non arriva fino alla cicatrice", che smacco, per un insegnante di yoga che non fa altro che spiegare agli altri come portare il respiro laddove ci sono tensioni.

Diagnosi finale: "Non scioglierai del tutto le tue tensioni finché non farai pace con la tua cicatrice, io ti posso aiutare, ma la terapia vera la devi fare tu, a casa".
Terapia: auto-massaggiarmi la cicatrice, toccarla, trattarmela, imparare ad attraversarla con il respiro.

Solo l'idea mi fa stare male e piangere. Io che amo il tatto, che massaggio e mi auto-massaggio, che gioco con il respiro e uso il mio respiro per sostenere gli altri, messa sotto scacco da una cicatrice piatta di 13 centimetri che dovrebbe rappresentare l'evento più bello della vita di una donna e invece per me (ma non solo per me) rappresenta uno degli episodi più brutti, tanto da rimuoverlo.

Questa è la società in cui viviamo: fare partorire le donne con rabbia e dolore, come se non ci fosse un modo diverso. Ma un modo diverso c'è. Oggi lo so. Ed è importante che le donne finalmente lo sappiano. E questo modo non si chiama "epidurale", ma si chiama preparazione psico-fisica al parto naturale, in un ambiente confortevole, sereno e protetto.
Se siete incinte o lo state programmando informatevi, per il vostro bene.

Alla fine l'osteopata mi ha detto: "non appena supererai questo blocco potrai aiutare le altre donne, perché solo chi ha sofferto può trasmettere profondamente la sua esperienza agli altri".

È quello che vorrei fare, e ancora non so come cavolo devo affrontare questa cavolo di cicatrice, ma il fatto che si sia risvegliata così prepotentemente dopo essermi formata per  lo yoga in gravidanza e averlo insegnato, e in concomitanza di un seminario sul tantra e di uno sul perdono è un segnale che non posso davvero ignorare. Ci vado a provare.


Grazie

Grazie a chi è arrivato. Niente ti ossigena più di una boccata d'aria fresca e di un nuovo sorriso.

Grazie a chi è tornato. È un'alchimia magica ritrovarsi sempre uguali ma diversi. A volte addirittura migliori. 

Grazie - a malincuore - a chi se n'è andato. Sopratutto grazie per quello che ha lasciato, che non è mai possibile andarsene del tutto. Per fortuna e purtroppo. 

Ma soprattutto grazie, grazie, grazie e ancora grazie a chi è sempre restato. Non sempre la scelta più difficile. Ma sempre quella più faticosa.

giovedì 19 gennaio 2017

Parole che amo: cedere e con_cedere.

Cedere, in latino "cadere, venire meno". 
Io nella parola cedere ci leggo la sfumatura del "lasciar andare" e in questo modo i derivati di questo verbo - accedere, concedere, precedere, incedere, recedere, eccedere, intercedere, succedere, decedere - per me prendono nuovi colori. 

E allora per concedere e per concedersi bisogna avanzare verso l'altro con la disposizione a cadere, o meglio, a lasciar cadere le resistenze.

domenica 15 gennaio 2017

Parole che amo: toccare, suonare, giocare, persona.

Parole che amo, toccare, nel suo significato di esercitare il senso del tatto, il mio preferito. 
Ma in spagnolo e portoghese tocar significa anche suonare uno strumento musicale, a sottolineare che il senso del tatto è indispensabile per fare musica. 

Curiosamente in inglese e francese l'atto di suonare viene associato al quello del giocare: to play e jouer, significano entrambe le cose. Questi paesi sottolineano l'aspetto ludico del fare musica, mentre i paesi a lingua spagnola e portoghese sottolineano l'aspetto tattile tra chi suona e lo strumento, mettendoli in un rapporto per certi verso tantrico.

In italiano si perdono entrambe le dimensioni per evidenziare invece il prodotto, ovvero suonare, emettere/produrre suoni per lo più con strumenti musicali. A sua volta da suonare deriva la parola persona dal latino per sonar che originariamente era il nome delle maschere teatrali dell'antica Grecia.

Mi piace pensare che il suono è in ogni persona. Che per suonare bisogna giocare, ma anche toccare con amore e devozione lo strumento. E che ogni volta che tocchiamo una persona la stiamo in qualche modo suonando, ovvero tirando fuori il suono che già in lei.

mercoledì 11 gennaio 2017

Parole che amo: palpare e palpitare.

Palpare: batter dolcemente, tastare.
Palpitare: frequentativo di palpare (cioè indica che l'azione viene ripetuta).

Non vorrei farei la guastafeste che svela il giochino. Tutto questo palpitare di cuori è molto bello, molto femminile, molto tutto. Però un'(auto)palpata è meglio. Forse meno romantica (non per me, comunque), ma più opportuna. 

Viva le donne, e viva le tette!

lunedì 9 gennaio 2017

per_fetta

Come dicono quelli che ne sanno "Tutto è perfetto così com'è".

E infatti non fa una piega, perché io detesto da sempre la perfezione.

sabato 7 gennaio 2017

Alter_nativa

Il consumismo ci ha consumati. E poi si è consumato.

E adesso che ci siamo tutti trasformati in consumatori modello, ci tocca disimparare  a desiderare lusso e comodità. E la schizofrenia ringrazia. 

Scrivere in un sms a mia sorella "Bae 'e cacca" (vai a cagare) e spedirlo per sbaglio a mia suocera

Sotto il segno della Lupa.

Parole che amo: sapere (da sapore) e con-oscere

Quando si studia anatomia nel modo classico, questa non viene mai sperimentata dall'interno, ma sempre tramite intermediari: libri, modelli, pazienti.
Dopo aver completato un corso di laurea in medicina, chiunque è in grado di spiegare esattamente la struttura di un fegato, illustrarne le funzioni e le interrelazioni con gli altri organi. Quasi nessuno però si occupa del fatto che il fegato possa anche essere sentito, come esperienza viva e attuale.
A livello culturale, è interessante notare come questo aspetto venga completamente rimosso, e con esso anche la possibilità di rendersi conto di ciò a cui involontariamente si rinuncia. È come se l'anatomia esperienziale rappresentasse la faccia dimenticata dell'anatomia cognitiva. Non a caso i latini utilizzavano due verbi per esprimere il concetto di «sapere»: cognosco e sapio; il primo si riferiva soprattutto a una comprensione intellettuale, mentre il secondo proveniva da una radice che significa «assaporare, gustare». In realtà, nonostante i due aspetti siamo complementari e non si escludano reciprocamente, alle discipline che si gustano l'anatomia, come ad esempio la danza [ma anche lo yoga N.d.r.], manca un referente cognitivo sistematico e, viceversa, all'anatomia tradizionalmente intesa manca il "sapore".


Tratto da "Essere corpo" di Jader Tolja e Tere Puig
I Buddha bar. Una catena di locali paracul-chic molto costosi dove ascoltare musica fighetta e sorseggiare superalcolici sparandosi pose post-new-age.

Al solo pensiero mi prudono le mani, non tanto per il tipo di posto, quanto per il nome. Un po' come intitolare un casinò a San Francesco o una casa d'appuntamenti alla Vergine Maria.

Dea Kali, fulminami. Anzi, fulmina loro.

Guardo tutte le vostre foto dall'India con soltanto una punta di invidia. La punta di un iceberg.

- Ehi Graham, vuoi un po' di pesce crudo?
- Nah... Se ho voglia di mercurio mi mangio un termometro.

Dal film "Sol Levante"

venerdì 6 gennaio 2017

Buoni propositi semi-seri per il 2017:


- lasciare le frecce agli indiani, le seghe mentali ai falegnami intellettuali e le masturbazioni cerebrali agli onanisti della psiche;

- trattare la masturbazione sessuale per quella che è: un'arte. Da imparare e da mettere da parte. Prima o poi tornerà utile e dilettevole. Parlo per esperienza, certo;

- essere meno acida e più snob. Molto snob;

- scrivere meno e parlare di più. Possibilmente a proposito e al momento giusto;

- lucidarmi l'ego con accuratezza e moderazione. Possibilmente non con lo yoga e non solo su Facebook. Non per altro, in entrambi i luoghi (yoga e Facebook) la concorrenza è troppa e sempre più spietata. E io voglio (tornare ad) essere una vera snob;

- imparare a cantare (o almeno provarci);

- stare nel mio giardino e curare le mie rose. Perché è vero che l'erba del vicino è sempre più verde, ma qua intorno l'unica ad avere il giardino sono io;

- non comprare più libri finché non ho finito di studiare la pila di quelli sul comodino. E la pila sulla scrivania dello studio. E anche la pila sulla credenza della cucina;

-  imparare ad accendere il fuoco, senza soffocarlo e senza appiccare incendi. Naturalmente parlo del mio fuoco interiore;

- trovare un motivo per gioire e per sorridere tutti i giorni;

- guardare il cielo;

- amarmi e amare. Sempre e comunque.

La_scia_re. Impossibile lasciare, senza lasciare la scia.

martedì 3 gennaio 2017

Esiste una versione della favola in cui il lupo in realtà è una Lupa eCappucetto Rosso è un maschietto.

Parole che amo: promessa.

"Quando fai l’amore con qualcuno, il tuo corpo fa una promessa, che tu lo voglia o no".
dal film Vanilla sky

Parole che amo: promessa. Da pro_mettere: mettere davanti (agli occhi).
E come tutti sanno il problema delle promesse non è tanto farle, quanto mantenerle. 
E allora mi/vi auguro una vita piena di promesse, da fare e da ricevere. Da mantenere con dedizione e da disattendere con leggerezza. Perché, che tu lo voglia o no, certe promesse sono fatte apposta per non essere mantenute.