mercoledì 10 febbraio 2021

Diceva Ennio Flaiano: “I grandi amori si annunciano in un modo preciso, appena la vedi dici: chi è questa stronza?”

Credo che la stessa incontrovertibile verità si possa estendere non solo alle persone, ma anche ai luoghi, alle cose, alle situazioni.

Come tra me e Chiatona, per esempio.

La prima volta che ci ho messo piede ho pensato, con tutto il mio cuore, il mio fegato e il mio stomaco: che schifo di posto. E che nome di merda. 

Chi mi conosce sa, perché lo dico sempre, che da sarda mi approccio a qualunque mare diverso da quello della mia isola con una tremenda puzza sotto il naso. 

Nel caso di Chiatona la puzza è anche quella dell’Ilva: se quelle ciminiere fumanti fossero un’installazione artistica, Chiatona sarebbe il posto in prima fila per ammirarle. 

A dare man forte alla mia snobberia anche un innegabile degrado che di fatto la pervade, sopratutto in alcuni punti, in modo davvero vergognoso e sicuramente non necessario, in fondo dare una mano di bianco ai muretti sul mare non manderebbe in fallimento nemmeno la più disastrata delle amministrazioni.

E poi c’è quel fondale del mare grigio, con cui riesco a scendere a patti solo da quando, qualcuno per prendermi in giro mi disse: “fai finta di fare il bagno del Gange”.

E io davvero ho iniziato a fare finta che fosse il Gange. Ricordando che il fiume più sacro e amato del mondo non svetta certo per limpidezza ed igiene, ed è stato forse così che ho iniziato prima ad apprezzarla e poi ad amarla.

Insomma a Chiatona all’inizio ci venivo solo per comodità: abbastanza vicina, con relativamente poco traffico, buone probabilità di trovare parcheggio e, sapendo dove andare, possibilità di trovare un angolo di spiaggia libera non troppo affollato nemmeno a Ferragosto. Piano piano poi l’ho iniziata a scoprire, accorgendomi che è immersa in bellissime pinete poco frequentate; che nelle sue spiagge crescono profumatissimi gigli di mare; che nelle intricate viuzze che la attraversano ci sono case nascoste tra i pini che potrei addirittura definire molto belle; che le strade hanno nomi deliziosi, tipo Via del Buongiorno; che oltre alle ciminiere dell’Ilva, quando le giornate sono limpide, si possono vedere anche i monti della Calabria; che nei giorni di luna piena estivi si può vedere al tempo stesso il sole tramontare e la luna sorgere, o al contrario ammirare l’alba di sole insieme al tramonto di luna; che è una meravigliosa colonia di gatti per lo più neri, felici e ben nutriti.

Lentamente eppure improvvisamente questo “schifo di posto” è diventato un posto del cuore, custode di passeggiate solitarie, di sessioni di yoga, di momenti a volte romantici e a volte goliardici, in ogni caso indimenticabili, di confidenze con le amiche, di risate, abbracci, risate, baci, risate, lacrime, e ancora risate.

Adesso non cambierei Chiatona con nessun altro posto al mondo (a meno che non si tratti della Sardegna, sia ben chiaro). Anche perché, dove lo trovo un altro posto a dieci minuti da casa che mi faccia lo stesso effetto del Gange? 

Ti va di salire a vedere la mia collezione di furie francesi e ritirare spagnole?

Promemoria per me stessa. Prima di dispensare buoni consigli accertarmi di non poter più dare il cattivo esempio.

Parole che amo: ribelle. Ri-belle, di nuovo belle.


Promemoria per me stessa.

Invece di pensare/dire “mi manchi”, pensare/dire “sei sempre nel mio cuore”.

Parole che amo: ri_conoscenza. Conoscersi ancora, ancora, ancora.


La legge di Murphy applicata allo yoga #57

DURA LEX, SED KARMA LEX

Prima #yogaeverywhere era l’hashtag di foto patinate in cui yogi e yogini fighissimi per aspetto e abbigliamento si cimentavano nelle posizioni più acrobatiche con lo sfondo di panorami mozzafiato o monumenti leggendari.

Da febbraio 2020 yoga every where e soprattutto #yogaeveryhow è la condizione esistenziale di insegnanti rassegnati e praticanti volenterosi alle prese con videolezioni online in soggiorno, durante le quali, tra un saluto al sole ed un nadi shodana, nella massima spontaneità il figlio adolescente ti sbatte la porta, la figlia infante ti si attacca ai leggins, un congiunto a vario titolo ti scavalca per attraversare la stanza, il corriere Amazon ti citofona e un congiunto a quattro zampe si fa il bidet a favore di telecamera.

Ah, i bei tempi in cui la massima iattura era un cellulare che squillava durante il mantra!

Parole che amo: osare. Ovvero protendere, ascoltare, difendere, proteggere.

Ti va di salire a vedere la mia collezione di omaggi a Faber?

Parole che amo: stupore.

Pre_stare e Pro_te_stare

Make it or break it

S_chiavi: che hanno perso le chiavi della libertà.

Parole che amo: perdere e smarrire.

https://www.etimo.it/?term=perdere

Perdere in sanscrito ha la stessa origine di tradire ed è il contrario di dare. 

Che “perdere” sia dunque - a volte - un po’ tradire per non aver voluto/potuto/saputo dare abbastanza?

Il significato di smarrire (che presuppone comunque una possibilità di ritrovamento) invece è molto vicino a quello di errare, impedire, confondere e sembra che derivi dalla radice germanica MAR che suggerisce impedimento e difficoltà. Quasi uno stato dell’essere, che provoca appunto uno smarrimento interno al soggetto agente invece che un evento casuale. 

Ho sempre pensato che “perdere” e “smarrire” fossero eventi in un certo senso passivi, qualcosa che capita aldilà della volontà del soggetto agente.

Le loro etimologie però mi offrono nuovi spunti di interpretazione, e mettono luce sulla corresponsabilità che si ha su tutto ciò che ci succede.

E ancora una volta ricordo a me stessa che tutto ciò che si perde, in realtà non si è mai posseduto.  Ma soprattutto che non si potrà mai perdere ciò che intimamente si è, e che quando si è ben saldi nel proprio centro non ci si può smarrire. 


Etimologia : perdere;


Etimologia : smarrire;

La fiducia non crea dipendenza, ma promuove risposta e impegno, crea responsabilità.

A volte la cura è un’altra faccia del controllo.
Il Coronavirus ci insegna che la cura di me corrisponde alla cura di te. Se proteggo me, proteggo anche te. Questo è il senso dell’appartenenza comune. Che ci rende anche esposti gli uni agli altri.

Nascere ci consegna una responsabilità: riscattare nell’orizzonte del senso il mondo e il destino che ereditiamo. Nasciamo in una tradizione a cui dobbiamo in qualche modo rispondere, anche (sopratutto) quando non ci corrisponde. La prima responsabilità l’abbiamo nei confronti di noi stessi. Esistere è un continuo esercizio di auto-verificarsi e di autenticità nel rapporto con l’altro (lo sconosciuto). Non siamo trasparenti a noi stessi, e non siamo integri perché siamo consegnati allo sguardo dell’altro. Essere se stessi è una narrazione.

 “there is no right in the wrong”

[Appunti vari presi durante la Scuola Estiva “Nascere e mettere al mondo” presso UniSalento Lecce 23-25 settembre 2020]

Parole che amo: embrione.

Dal greco "enbryein": ciò che germina, pullula, fiorisce dentro. Della stessa famiglia anche la parola brio: pieno di vita.

Ti va di salire a vedere la mia collezione di “avrei voluto averlo scritto io”?

Parole che amo: puzzle.

Che perfetta metafora della vita, della mente, delle relazioni.

L’arte della pazienza. L’arte di cercare di rimettere insieme i pezzi, passando per mille tentativi ed errori, per sviste e colpi di fortuna. Ma anche l’arte dell’inganno, dell’auto-inganno, dell’attenzione, del particolare, della precisione.

Ci sono pezzi che capisci subito dove vanno: di solito sono i confini, fisici del puzzle o delle immagini che raffigura. Magari ci metti un po’ per sistemarli, ma sono relativamente semplici e riconoscibili.

Ci sono pezzi che per giorni e giorni sei convinto appartengano ad una parte, ad una figura, ma l’incastro giusto non arriva mai, e solo dopo mille estenuanti tentativi ti accorgi che il loro posto era da tutt’altra parte e che non sempre le cose sono come sembrano. Anzi a volte sono proprio quello che non ti saresti mai aspettato. 

Poi ci sono quei pezzi che appoggi senza neanche pensarci troppo e invece loro si incastrano al primo colpo come per magia. Intuito? Fortuna? Destino? Forse tutte queste cose insieme. 

Gli ultimi 30/40 pezzi vanno da soli, sembrano già conoscere la loro strada, finalmente non hanno tentennamenti. Tutto ciò che sembrava impossibile rimettere insieme ha preso una forma, un’immagine, dei colori, offrendo una sensazione di ordine e di perfezione. 

Forse sarà così anche alla fine della nostra vita: ogni esperienza, ogni cosa vissuta, ogni sbaglio e ogni grande gesto, ogni persona incontrata, sia stata amata o odiata, tutto si rimetterà insieme per offrire la perfetta immagine di ciò che siamo sempre stati. 

Forse siamo solo un gruzzolo di pezzetti sparpagliati che stanno andando verso il loro incastro perfetto.

Gabbia_no

martedì 9 febbraio 2021

Le parole sono importanti, probabilmente la frase più citata ma anche la più disattesa del cinema italiano.

“Signora, la dobbiamo ingressare”.

Ingressare?

Sì, ingressare.

Mi viene un principio di risata, ma l’addetta non scherza affatto, anzi, mi chiede i documenti e annota le mie generalità, per permettermi l’ingresso, appunto, nella scuola di mia figlia dove sono stata convocata.

Mentre mi sottopongo mestamente a tutta la procedura anticovid continuo a pensare a questa parola.

Il vocabolario mi insegna che è la procedura di registrazione delle merci nei magazzini, o per i più sensibili e romantici, dei libri in entrata nelle biblioteche. Già qui ci sarebbe un bel po’ da speculare, ma la mia fantasia va oltre, e la trasforma in un mix tra ingessare e ingrassare.

Ingressare, ingessare, ingrassare. In fondo non è esattamente quello che è successo alle nostre vite da circa un anno a questa parte?